I Maestri della fotografia : JOSEF KOUDELKA

Oggi parlerò di uno dei fotografi più coraggiosi e più interessanti della storia.

Ama la musica e l'aeronautica ed è uno spirito libero, un anarchico, ma dotato di grande coerenza e di una sua personale filosofia.“Può succedere che io raggiunga il massimo la prima volta, per caso, e che io ritorni nello stesso posto dieci volte di seguito, per dieci anni, senza riuscire a far meglio. O che cercando un certo massimo ne trovi un altro, a cui non avevo pensato. Quello che importa è la ricerca, la motivazione a spingersi oltre. Ma non posso proporre questo modo di lavorare a un giornale, non posso farmi mandare dieci volte a Lourdes per tornare con una foto che non ha niente a che fare con Lourdes”.

Josef Koudelka nasce nel 1938  a  Boskovice, in Cecoslovacchia,  l'odierna Repubblica Ceca.

Il suo amore per la fotografia è precoce, inizia a 12 anni quando acquista una reflex 6x6 in bachelite. 

La acquista raccogliendo e vendendo fragole. A trasmettergli la passione fu un caro amico del padre, un fornaio.

Oltre alla fotografia nutre interesse per l'aeronautica, tanto da intraprendere gli studi di ingegneria aeronautica a Praga e conseguire la laurea nel 1961.

Nonostante la laurea in ingegneria ed il lavoro da ingegnere non abbandona la passione per la fotografia, ed in quegli anni arrotonda facendo foto che gli commissionano per il teatro, almeno per il momento.

Nel 1967 ecco la svolta: abbandona definitivamente la carriera di ingegnere per dedicarsi completamente alla fotografia.

Nel 1968 succede un evento fondamentale per la sua carriera: di rientro dalla Romania per un servizio fotografico sugli zingari assiste alla fine della Primavera di Praga, i sovietici occupano la città; si precipita letteralmente in strada per immortalare quegli attimi drammatici. I negativi lasceranno il paese attraverso diversi sotterfugi, grazie all'intervento della Magnum Photos. Le foto saranno pubblicate successivamente sul The Sunday Times sotto la sigla PP (Prague Photographer) onde evitare possibili ripercussioni per lui e la sua famiglia.

Nel 1969 quelle immagini, che diventarono simboli di quei momenti drammatici gli valsero il prestigioso riconoscimento Robert Capa Gold Medal  dell' Overseas Press Club per il suo eccezionale coraggio dimostrato nella realizzazione di quegli scatti.

"E' stato il momento massimo della mia carriera. In dieci giorni è successo tutto quello che nella mia vita poteva succedere. Io stesso ero al massimo. Forse è per questo che ho coperto questa situazione meglio dei reporter che erano arrivati da ogni parte del mondo e che lo facevano per mestiere. Io non ero un foto-giornalista."

Nell'anno seguente chiede asilo politico e ottiene il visto per lavorare in Inghilterra.

Nel 1971 diventa un fotografo della Magnum Photos, e ne farà parte per una decina di anni circa.

Gli anni a venire li passerà errando per l'Europa.

La sua indole di "nomade" lo porta a girovagare per l'Europa accompagnato dalla sola macchina fotografica e qualche effetto personale.

Una conseguenza di questo suo continuo viaggiare risiede nel fatto di avere tre figli nati e cresciuti in tre diverse nazioni ( Inghilterra, Francia e Italia ).

In quegli anni è molto attivo e si autofinanzia i viaggi grazie alla pubblicazione di diversi libri ( Gypsies, 1967; Exiles, 1968; Chaos, 1999 ecc ), alle mostre fotografiche ed agli innumerevoli premi vinti.

Nel 1987  ottiene la cittadinanza Francese ma riesce a tornare in Cecoslovacchia solo nel 1991.  

Una volta tornato in patria documenta la devastazione subita e pubblica The Black Triangle.

 Nel 1994, al seguito del regista Theo Angelopoulos che stava girando il film "Lo sguardo di Ulisse", scatta diverse foto in Romania, Jugoslavia, Albania e Grecia.

La sua infanzia ha forgiato il suo carattere, e questo è indubbiamente visibile nei suoi lavori. Grazie al suo approccio coraggioso e sperimentale alla vita, è riuscito, per esempio, a ottenere un gran lavoro con gli zingari e sui loro relativi usi e costumi. 

Un'altra sua caratteristica molto importante è la totale insensibilità nei riguardi della critica e dei gusti della gente, tanto da non esserne mai condizionato in alcun modo.

“Non so cosa sia importante per le persone che guardano le mie foto. Quello che è importante per me, è il fatto di farle. Ma io non lavoro per provare il mio talento. Io fotografo quasi tutti i giorni, tranne quando fa troppo freddo per viaggiare a modo mio. Qualche volta faccio delle buone cose, altre volte no, ma penso che col tempo qualcosa verrà fuori dal mio lavoro..."

Ma questo modo di pensare non gli ha impedito di vincere prestigiosi premi durante tutto l'arco della sua carriera; tra i più importanti ricordiamo: Prix Nadar (1978); Grand Prix National de la Photographie (1989); Grand Prix Cartier-Bresson (1991); Hasselblad Foundation International Award in Photography (1992). 

Per Josef non esiste un approccio universale in fotografia; ognuno deve seguire il suo istinto, il proprio metodo; ascolta tutti, ma fa di testa tua.

“Io non cerco di comprendere. Per me la cosa più bella è svegliarmi, uscire e andare in giro a guardare. Guardare tutto. Senza che nessuno stia lì a dirmi: ‘devi guardare questo o quello’. Io guardo tutto e cerco di trovare ciò che mi interessa, perché, all’inizio, non so cosa potrà interessarmi. Mi succede anche di fotografare dei soggetti che altri troverebbero stupidi, ma che, personalmente, mi permettono di mettermi in gioco. Henri (Cartier Bresson) diceva di prepararsi molto, prima di incontrare qualcuno o di visitare un paese. Io no: io cerco di reagire a quello che si presenta. Poi tornerò, magari ogni anno, magari per dieci anni di seguito, e così finirò per comprendere”.

Un altro insegnamento, tratto dal personale punto di vista di Koudelka sta nell'esercizio della visione delle immagini, importantissimo per scovare errori e punti di forza e interiorizzarli per lavori futuri :

“Dopo aver visto i provini, io non stampo solo le foto buone, ma tutte quelle che mi sembrano un po’ interessanti, anche se so che sono da scartare. A volte fotografo senza guardare nel mirino. È una cosa che ormai riesco a controllare abbastanza bene: è quasi come se guardassi. Quello che spero di trovare è un passaggio dall’inconscio al conscio. Quando fotografo, non penso molto. Se tu guardassi i miei provini ti chiederesti: ‘Ma che combina ‘sto tipo?’. Ma io sui provini e sulle stampe di piccolo formato ci lavoro: li guardo di continuo, di continuo. Credo che il risultato di questo lavoro finisca per essere interiorizzato e che, al momento di fotografare, venga fuori senza che io ci pensi”.

 Impara le regole e poi stravolgile:

“Qualche anno fa avevo realizzato un catalogo, in cui avevo classificato le mie foto secondo la composizione. Se si ama qualcosa, e se in più si ha un po’ di talento e ci si mette un po’ d’energia, la cosa finisce per funzionare. Il programma funziona. Ma è importante, dopo, saper abbandonare il programma per andare oltre. Sarebbe troppo facile fermarsi a questo e lasciare che i risultati vengano fuori automaticamente. Bisogna distruggere il programma e riprogrammare”.

“La ripetizione non mi interessa. Non voglio arrivare al punto in cui non saprei come continuare. È giusto costruirsi dei limiti, ma bisogna, a un certo momento, saper distruggere la propria costruzione”.

Fu molto amico con il grandissimo Henri Cartier-Bresson che lo ammirò e supportò fin dagli esordi, nonostante i due abbiano avuto visione e stile fotografico molto diversi.

Infine voglio chiudere questo articolo su questo mostro sacro della fotografia, che continua a fare la spola tra Praga e Parigi, e che continua a deliziarci con le sue superbe immagini con un'ultima sua riflessione :

 "Quando vivi in un luogo a lungo diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco." 

Josef Koudelka

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